L’aura dell’effimero – La potenza dei materiali naturali –

 

Questo semestre, una mia professoressa, ha dato la possibilità ad alcuni di noi di fare un piccolo intervento in classe, esponendo una ricerca personale su un argomento correlato a quello del suo corso. L’argomento del corso era l’aura delle opere d’arte, quell’alone di mistero, preziosità e sacralità che le opere emanano.
Trovando la possibilità offertaci dalla professoressa molto interessante, ho deciso di coglierla al volo (non senza qualche riserva e ansia iniziale, devo ammetterlo). Ho quindi fatto una piccola ricerca, l’intervento orale non doveva durare più di venti minuti, su tre artisti e sui materiali usati da essi per esprimersi. Ho deciso di riportarla sul mio blog perché trovo che ci possano essere degli spunti interessanti per ricerche o riflessioni personali.

Il mio percorso di ricerca si snoda attraverso tre artisti, Motoi Yamamoto, Wolfgang Laib e Walter De Maria, che lavorano o hanno lavorato con materiali particolari in grado, per alcune loro caratteristiche, di aumentare o, in alcuni casi, di generare l’aura nell’opera d’arte. Sono materiali di origine naturale, incontaminati e non modificati dall’uomo, estremamente volatili, difficilmente catturabili e portatori di simboli e significati. Il simbolo è un grande generatore di aura in quanto cela significati nascosti che aumentano il senso di mistero.
Veniamo ai nostri artisti. Comincio da Motoi Yamamoto, artista giapponese che non si forma come tale, ma che entrerà nel mondo dell’arte in seguito alla scomparsa prematura di sua sorella. Per vedere le sue opere vi rimando al suo sito: http://www.motoi.biz
Motoi Yamamoto lavora con il sale, un elemento fortemente auratico, sia per le sue caratteristiche, sia per essere evocatore e simbolo potente.

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Innanzitutto, il sale, è fondamentale per la vita umana; senza di esso il nostro organismo si ammalerebbe e andrebbe in contro alla morte. Di conseguenza il sale ha plasmato la storia dell’uomo fin dalle sue origini, e la sua ricerca è stata il movente di guerre e rivolte. Noi ormai ci siamo dimenticati di tutto ciò, il sale è presente su tutte le nostre tavole perchè ormai disponiamo di mezzi tecnologici che ne rendono facile l’estrazione; ma nei secoli passati non era così, era invece difficilmente ottenibile, e per questo è stato chiamato a lungo “oro bianco”. Il sale è quindi universalmente simbolo della vita e ha una sua particolare preziosità. Non dimentichiamo che questo elemento è anche un potente conservatore, in quanto assorbe l’acqua contenuta nelle sostanze con cui viene in contatto e fa si che i microrganismi non possano svilupparsi.

Inoltre, in Giappone, paese natale di Yamamoto, acquisisce ulteriori significati. È un elemento di buon auspicio; è facile trovare, accanto all’entrata degli esercizi commerciali o dei ristoranti, un piccolo cumulo di sale come portafortuna. Nella cultura giapponese, inoltre, è strettamente collegato all’idea di morte perchè, durante le cerimonie funebri, viene distribuito ai presenti che lo porteranno nelle proprie case e ne cospargeranno i pavimenti in modo da allontanare il male.

Quindi il sale, nelle opere di Motoi si tinge di valenze di vita e di morte, di protettore di memorie che non vogliono essere dimenticate e di particolare preziosità. L’artista, prevalentemente, crea vastissimi labirinti che si snodano, con una trama fittissima, nelle stanze che li accolgono.

Dal punto di vista dell’aura è invece particolarmente interessante la fine di queste opere. Con la conclusione dell’esposizione, gli ultimi visitatori sono invitati a raccogliere una manciata di sale e portarlo con sè per poi liberarlo in mare, come si può vedere in questo video: https://www.youtube.com/watch?v=gCKTQyAGpp8&feature=player_embedded

La distanza necessaria, secondo Walter Benjamin*, perchè si crei l’aura, viene annullata anche dal punto di vista fisico. Lo spettatore entra nell’opera, se ne appropria e la libera in mare, quel mare da cui nasce l’elemento che la costituisce. L’aura passa nelle mani degli spettatori e si trasferisce nel loro gesto. In questo modo Motoi Yamamoto crea un circolo di nascita-vita-morte-rinascita, che sembra non aver fine: il sale viene prelevato dal mare, costituisce l’opera di Yamamoto, e viene in seguito riportato al suo mondo creatore.

Le sue opere, proprio per il fatto che hanno una durata limitate nel tempo, e anche se riproposte non saranno mai identiche alle precedenti, hanno una grande componente di “Hic et Nunc”*, qui e ora, e in nessun altro posto in nessun altro momento, che ne accentua l’aura.

Ma veniamo a Wolfgang Laib, altro artista che usa un materiale naturale molto auratico. Egli vive in una casetta immersa nei prati ai confini della Foresta Nera e per otto mesi l’anno, da marzo ad ottobre, raccoglie polline; attività estenuante che sottolinea la preziosità di questo elemento.

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Il polline, come sappiamo, è l’elemento attraverso il quale si compie la riproduzione delle piante e pertanto è simbolo di vita, ma ha anche una gamma di colorazioni impossibili da riprodurre da noi artisti e la sua brillantezza non è ricreabile. Queste caratteristiche ne fanno un materiale in grado di portare con sè una particolare aura di preziosità. Laib si esprime così a proposito del polline: “Il polline […] non è ciò che io ho creato, e pertanto è più di quel che io potrei mai fare.” L’artista sembra ammettere che il polline sia più importante della sua opera e di conseguenza che questo abbia un’aura nettamente più potente. Ci troviamo davanti ad un ribaltamento di rapporti: non è più la mano dell’artista che conferisce al materiale una forma ricca di aura, ma è il materiale che dona aura all’operato dell’artista.

Le opere di Laib sono semplici, facili da capire, perchè, come lui stesso dice, non vogliono essere nient’altro che quello che sono: sono polline. Arte come arte, concetto ritrovabile in artisti come Rotcko o Newman, che creano opere che nascono in quel momento, senza un passatto e che non vogliono essere nient’altro che quello che sono e non vogliono comunicare nulla all’infuori dell’arte pura. Egli solitamente spolvera sul pavimento il polline, disegnando dei grandi parallelogrammi.

Anche le opere di Wolfgang Laib hanno una durata relativa alla mostra e di conseguenza godono di quell’aura dovuta all’Hic et Nunc*, come le opere di Yamamoto. Inoltre, l’estrema volatilità del polline, le rende ancora più effimere e preziose.

Passiamo ora a Walter De Maria, artista che non predilige materiali particolari per le sue opere ma che ne crea una con un elemento incredibile, assolutamente inafferrabile: il fulmine.

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Quando noi pensiamo al fulmine, ci vengono in mente due aspetti in particolare. Per prima cosa la sua rapidità, è un lampo, non dura nulla; poi la sua potenza, è l’espressione stessa della forza della natura, in grado di uccidere persone e incendiare alberi. Non è neanche un materiale, è una scarica elettrica, De Maria quindi compie un azione al limite “dell’assurdo” realizzando un’opera che non è fatta da nulla di materiale.

L’artista installa quattrocento pali metallici su una superficie di tre chilometri quadrati in un’area desertica del New Mexico e lascia che il temporale produca spettacolosi disegni luminosi contro il cielo oscuro.

L’Hic et Nunc* è ancora una volta presente e doppiamente: l’opera, non solo è fruibile solo quando si scatena un temporale, ma i fulmini non cadranno mai due volte allo stesso modo e non disegneranno mai due volte le stesse serpentine luminose nel cielo.

Questi aspetti fanno sì che l’opera abbia un’aura molto potente, ma quest’ultima è ulteriormente potenziata dalla spettacolarizzazione. Si è voluto creare un vero e proprio evento intorno a quest’opera: i visitatori sono presi in gruppi di sei e portati, dopo un viaggio di due ore, in una piccola casetta nella zona dei pali, dove dovranno rimanere per ventiquattro ore. Un evento che ha le stesse caratteristiche di un pellegrinaggio o di un viaggio iniziatico.

Questo che riguarda l’opera attraverso il quale si possono effettuare le prenotazioni per la visita: http://www.diaart.org/sites/main/lightningfield

Sono molti gli artisti che lavorano con materiali naturali ed effimeri, nell’arte povera abbiamo Penone, ci sono quelli che lavorano con la sabbia, altri con le foglie… io ho voluto presentare questi tre, trovandoli particolarmente interessanti.

Vi lascio con un interrogativo. L’aura di queste opere, dove finirà, una volta che saranno distrutte (in particolare nel caso di Yamamoto e di Laib)? Si trasferirà sulle fotografie che ne testimoniano la creazione oppure verrà riassorbita in quel mondo naturale da cui nascono i materiali che la generano?

Bibliografia di riferimento:

Walter Benjamin, Aura e chock, Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Torino, 2012, Einaudi.

Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Mercanti d’aura, Logiche dell’arte contemporanea, Bologna, 2006, Il Mulino.

Le immagini contenute in questo articolo sono state prese da Wikipedia Commons.

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