In un mondo che si profila sempre più minimalista e virtuale, come può l’arte “tradizionale” sopravvivere?
Da pittrice “tradizionale” legata alla tela, ai pennelli e ai colori, è un problema su cui mi arrovello da molto tempo.
Abbiamo iniziato a svuotare le nostre case da tutto il “superfluo”, preferendo linee minimali, spazi ampi e vuoti in cui “poter respirare”; l’oggetto artistico è tra i primi messi da parte. Mobili antichi, quadri, tappeti, vasi, sculture… tutto in cantina, o, peggio ancora, liquidato in qualche modo, alla bene meglio in un qualsiasi mercatino. È l’esasperazione del “less is more”, che quando è nato aveva le sue più che valide ragioni stilistiche e una sua poetica, ma che ora somiglia più ad una dittatura.
L’uomo però, ha un intrinseco bisogno, direi quasi assoluto, di arte, di bello, di immagini. La sua natura è sensoriale, la vista ha bisogno di incuriosirsi e di ammirare. Cosa abbiamo inventato, allora, per supplire a questa mancanza mantenendo però le linee pulite degli spazi vuoti? Dei piccoli oggettini, uno dei quali ho io in mano in questo momento per scrivere, che contengono tutto: le fotografie, così antipatiche nelle cornici da spolverare, ma così fruibili su uno schermo illuminato, i portafogli, con tutte le loro carte, le nostre preferenze, i sogni, i ricordi, le password (tanto odiate perché troppe, come mai “less is more” non funziona con le password?), cartelle sanitarie, cianfrusaglie, cinema, negozi, supermercati… tutto! Tutto è contenuto in un cellulare o simili. Anche l’arte. È più “facile” prendersi cura di un NFT (opera d’arte digitale) che non subisce le alterazioni materiche del tempo (e qui ci sarebbe un altro capitolo da aprire: se non si deteriora materialmente, si potrebbe deteriorare digitalmente a suon di aggiornamenti, evoluzioni di sistemi, cambiamenti tecnici…?) e che se ne sta comodamente su uno schermo, piuttosto che di un quadro che ogni tanto ha bisogno di un giretto dal restauratore o che si impolvera o che, soprattutto, disturba lo sguardo rompendo l’assoluto silenzio visivo di una stanza. Meglio uno spazio asettico e poter far comparire ai nostri occhi un’immagine solo quando lo si vuole, sui nostri schermi.
L’arte, quella fatta di oggetti visibili ma soprattutto tangibili, allora che fine fa? Sembra essere relegata alle mostre, ai musei, ma nessuno nella propria casa sembra volerla. Chi investe più in un artista emergente piuttosto che in una stampa a basso costo che riproduce un quadro famoso di un museo? Costa meno e so che nel futuro avrò perso il prezzo di un poster, con l’artista emergente potrei perdere cento, mille volte tanto, se non sarà mai riconosciuto. Che mi piaccia non importa. Allora arriviamo al solito discorso che tutto gira intorno ai soldi, alla speculazione e allo “spreco” monetario da evitare. Al mondo ci sono anche persone che possono prendersi tale rischio, lo sappiamo, ma anche questa è un’altra storia che ci porterebbe ad altre domande come quella se l’arte odierna segue ancora correnti e movimenti artistici o piuttosto delle “mode” temporanee volte solo all’arricchimento di chi ci lavora; ma appunto, è un’altra storia. Restiamo nel discorso principale e nel modo delle persone “comuni”. Una volta si investiva nell’arte per avere un bene da passare di generazione in generazione, un bene da amare, in cui si credeva e che si trovava bello per una qualsivoglia ragione, che fosse estetica o di contenuti; ora si investe nel denaro stesso, o nell’etere, e questo, personalmente, mi spaventa ancora di più. Questa arte digitale, immersiva, virtuale, così coinvolgente, riuscirà a soppiantare l’arte tradizionale? Sembra che l’uomo necessiti di sentirsi creatore di una realtà tutta sua, ma illusoria, ed è quest’ultimo il termine che ben dovremmo tenere a mente. È tutto illusorio, tutto effimero, realtà irreale ed inesistente, priva di materia nel senso scientifico del termine. Perlomeno è quello che cerco di fare io, pittrice con colori e tele, che vive in una casa piena di quelle che oggi sono considerate cianfrusaglie, quando la paura che questo mondo di oggetti sia ormai destinato all’obblio mi assale.
Ma siamo sicuri che un’immagine su uno schermo, per quanto sia solo mia e solo io abbia il privilegio di guardarla nella sua massima espressione di pixel, ci possa parlare tanto quanto un quadro che cambia col tempo, con la luce, con lo sguardo e coi sentimenti di chi lo sta guardando? Tenere un cellulare in mano è equivalente ad avere tra le mani una scultura fatta di metallo che si scalda toccandola e che sembra cambiar di volumi a seconda della luce che la colpisce? Come scrisse tanto tempo fa qualcuno più illustre di me: “ai posteri l’ardua sentenza”. Per quanto mi riguarda, continuo a dipingere, sporcandomi di colore le mani, colore vero, non digitale, e sperando che non tutto sia vano.
Articolo di Giulia Calvanese per Radio Bla Bla Network News